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Padre Jacques Mourad, ostaggio dell’ISIS

 
4 Gennaio 2020   |   Iraq, Guerra in Siria, Comunità di Mar Musa
 
Di Aurelio Molè.

La storia di padre Jacques Mourad, testimone di pace, nel mezzo alla violenza.

Dall’inizio della guerra in Siria, padre Jacques Mourad, 52 anni, monaco siro-cattolico, aveva scelto di rimanere in mezzo al suo popolo, nonostante il pericolo.

Fu rapito ad Al Qaryatayn, in Siria, dove era pastore. Per quattro mesi e 20 giorni, è stato tenuto prigioniero dall’ISIS, che successivamente lo ha imprigionato e torturato a Raqqa. Dopo aver visto personalmente i giovani convertirsi all’estremismo, ha acquisito una visione significativa del perché ciò accada: le persone di basso status sociale sono diventate potenti “con alti salari, grandi case, macchine stravaganti”.

La guerra in Siria continua a imperversare e sarebbe imprudente per lui tornare lì. Oggi, vive a Suleymanya, nella regione del Kurdistan in Iraq, dove può stare vicino a coloro che soffrono.

Perché ha deciso di vivere ancora in Medio Oriente?

Il mio popolo è sparpagliato ai 4 angoli della Terra; a milioni sono deportati all’interno dello stesso Paese o ammassati in campi di fortuna alle frontiere, senz’acqua, senza cibo, senza igiene. Voglio vivere come loro, voglio vivere come un rifugiato, povero tra i poveri. Sono un pastore: devo vivere vicino al mio gregge martirizzato. Per questo sono in Kurdistan. Dopo essere stato rilasciato, sono rimasto in Siria altri 3 mesi, ma non potevo restare perché non potevo tacere il male che tutti praticano contro il popolo siriano. Vivo in un monastero della comunità di Mar Musa, siamo specializzati nel dialogo e tentiamo una riconciliazione tra curdi e cristiani.

Nel suo libro “Un monaco in ostaggio”, pubblicato dall’editrice Effatà, scrive, riferendosi a un emiro che la interroga sulla sua fede: «Com’è possibile che una persona così fine e colta, che prega cinque volte al giorno e cerca di obbedire alla legge di Dio, possa appartenere ad un’organizzazione terrorista, che pratica la schiavitù e commette attentati ed esecuzioni sommarie?».

Durante la prigionia è stato un punto di riflessione. È una grande questione perché non è possibile che una persona che prega e si mette davanti Dio, possa praticare la violenza. Numerosi jihadisti mi hanno raccontato che usano gli stessi metodi utilizzati da Maometto quando l’Islam era agli inizi per dominare il mondo. Ma è davvero possibile commettere attentati e sgozzamenti e al tempo stesso vivere una relazione reale con Dio? Anche se l’uomo è cattivo, fino a che punto può usare il nome di Dio per realizzare il suo progetto? Non dobbiamo dimenticare che anche noi cristiani abbiamo avuto le crociate. Pian piano ho capito che ogni jihadista vive un conflitto interiore di grande intensità, tra il credere di vivere alla lettera gli insegnamenti di Maometto e l’umanità presente in ciascuno di noi con cui Dio plasma tutti gli uomini e li spinge a prendersi cura degli altri. Per sfuggire a questo dramma indicibile alcuni si buttano nella violenza fino alla morte, fino al martirio.

Ci sono stati molti i momenti difficili durante il rapimento…

Ogni giorno, per 4 mesi e 20 giorni, è stato difficile perché ogni giorno è come una vita intera. Dio ha creato l’uomo a sua immagine. Vuol dire libero. La prigione non può mai essere una terapia per cambiare l’attitudine degli uomini. Quello che mi fa tanto soffrire in Siria sono tutti questi prigionieri, rapiti, nascosti, non c’è nessuno che pensa a loro. Sono tutti vittime della guerra e non è giusto che i governi occidentali non prendano una seria iniziativa per salvarli tutti. Per quanto mi riguarda, il momento più difficile è stato quando mi hanno trasferito da Raqqa a Palmira e ho scoperto che non avevano rapito e imprigionato solo me, ma anche la metà dei miei parrocchiani: uomini, donne, bambini, anziani. Sono venuto a sapere più tardi che tutti gli altri sono fuggiti da Qaryatayn prima dell’arrivo dello Stato islamico.
Pensavo che fossero tutti fuggiti perché li avevo avvisati. Quando mi sarebbe accaduto qualcosa – avevo detto loro –, sarebbe stato il segno di lasciare tutto e fuggire. Li pensavo in salvo. Passata la sorpresa, ci siamo gettati nelle braccia gli uni degli altri, felici di ritrovarci vivi! Pensavo di non rivederli più ed essi mi credevano morto da tempo. Ritrovare il loro Abouna, il loro padre, li ha riempiti di gioia. Rassicurati, consolati, non si sono sentiti più soli, esposti agli umori dei jihadisti che li tenevano prigionieri.

Allo stesso tempo il dolore che ho provato è stato insopportabile come se un pugnale mi avesse trafitto il cuore. È stato molto difficile abbracciare i bambini del catechismo, gli anziani handicappati. Avrei preferito essere morto piuttosto che vivere tutto questo. Vedere i miei parrocchiani, i miei cari bambini nelle mani di questi pazzi mi era insopportabile! Tutte queste persone io le ho viste nascere, le ho battezzate, le ho sposate…

L’hanno rapita perché era il capo di una comunità?

Il motivo è stato perché ero il parroco e,come dice il Vangelo, quando catturano il pastore, le pecore scappano. Inoltre avevo un ruolo importante nella mia città per l’accoglienza dei profughi che mostrava la generosità dei cristiani per trasmettere l’amore di Cristo verso gli altri e tutto il bene che abbiamo compiuto durante gli anni della guerra. Altra ragione è stato impedire il lavoro di mediazione tra le parti in conflitto per cercare di evitare ogni violenza. Tante mo- tivazioni per rapirmi e uccidermi anche se non sapevo bene cosa volessero fare di me.

Quanti cristiani sono rimasti a Qaryatayn?

La città dove ero parroco prima della guerra aveva 30 mila abitanti. Durante la guerra abbiamo accolto tanti profughi provenienti da tutta la Siria e siamo arrivati a più di 55 mila abitanti: nella mia parrocchia c’erano circa mille persone. Alla fine della guerra erano 500 e adesso non c’è più nessuno. E ancora oggi la mia città non è sicura.

Per quali motivi vi hanno liberato?

Il califfo Al Baghdadi ci ha liberato con la concessione di una mana, una grazia, perché noi, cristiani di Qaryatayn, non abbiamo mai imbracciato le armi contro i musulmani. Rimasi sbigottito. Il motivo per cui ci fu risparmiata la vita è perché siamo rimasti fino in fondo fedeli al Vangelo rifiutando categoricamente la violenza. Io e i miei parrocchiani, prigionieri dello Stato islamico capace delle peggiori esecuzioni, siamo stati liberati per la nostra radicalità di perdono.

 

Io e i miei parrocchiani, prigionieri dello Stato islamico, siamo stati liberati per la nostra radicalità nel perdono.

 

Quando è stato liberato e rientrato a Qaryatayn, ormai sotto il controllo del Daesh, è riuscito a fuggire per veri atti di coraggio di giovani musulmani…

Con i musulmani ci sono sempre stati dei buoni rapporti e una vera fratellanza. È il vero volto dell’Islam. Abbiamo la stessa fede e obbediamo allo stesso Dio. Fin dal nostro ritorno a Qaryatayn, alcuni giovani musulmani ci hanno sistematicamente aiutato. In Siria ci sono cristiani che hanno salvato musulmani, e musulmani che hanno salvato cristiani. Nei territori governati dallo Stato islamico è severamente proibito ai musulmani aiutare i cristiani, ma questi ragazzi non ne hanno tenuto conto e hanno rischiato la loro vita per noi. Ci hanno aiutato a far fuggire, all’inizio, le ragazze e le donne cristiane facendole indossare un niqab nero. Il posto di blocco era sorvegliato solo da uomini che non avevano il diritto di vedere le donne in volto. Ci hanno trovato dei
niqab e, così nascoste, diverse donne e diverse ragazze sono riuscite a scappare. Una lista di 20 malati, per intercessione dell’Emiro, siamo riusciti a farli partire per Homs perché bisognosi di cure. I posti di blocco sono solo sulle strade e noi, gente di Qaryatayn, conosciamo a memoria il deserto: da lì molti uomini sono fuggiti. Il quarantesimo giorno dopo il nostro ritorno, come dopo i 40 giorni biblici nel deserto, è arrivato anche per me il momento di partire. Un giovane musulmano mi è venuto a prendere in moto perché c’era un posto di blocco tenuto da stranieri che non mi conoscevano. Indossata una kefiah, sono arrivato dopo varie peripezie fino ad Homs. Finalmente libero, per un musulmano che ha rischiato la vita per me.

 

Con i musulmani ci sono sempre stati dei buoni rapporti e una vera fratellanza. È il vero volto dell’Islam. Abbiamo la stessa fede e obbediamo allo stesso Dio.

 

Dopo tutte queste esperienze, cosa vuol dire essere un cristiano?

Un cristiano ama tutti, senza giudicare, e ama per primo i suoi nemici, anche se ritengo che un cristiano non possa avere nemici. La guerra divide. È importante non prendere parte per nessuno. Il cristiano deve solo essere testimone della giustizia per vivere con dignità e rispetto. Se un cristiano si schiera contro qualcuno, lo tratta e ne parla male, non è secondo il Vangelo perché Cristo sulla croce non si è schierato contro quelli che lo hanno condannato. Non ha giudicato, li ha perdonati. E allora amiamo senza sosta, amiamo anche coloro che si presentano come nemici. Con tutti i credenti e gli uomini di buona volontà, lanciamo insieme una rivoluzione mondiale contro la violenza e per la pace, con la nostra preghiera fiduciosa, la nostra carità senza confini e la nostra gioiosa speranza. Sembra una visione ambiziosa e idealista? Forse. Ma io la rivendico. Gesù è venuto per salvare il mondo, questo non era idealista?

Cosa ha più a cuore?

L’emigrazione dei cristiani dalla Siria e dal Medio Oriente passa sotto silenzio. Vuol dire tagliare le radici di tutta la Chiesa. È una grande preoccupazione per il futu- ro e una responsabilità personale di ogni cristiano.

Si hanno notizie su padre Paolo Dall’Oglio?

Dobbiamo chiedere alla Farnesina, perché loro ne hanno la responsa-bilità. Non si hanno notizie. Quando ero prigioniero a Raqqa, non ho potuto chiedere a nessuno. Padre Paolo è il mio fondatore, è mio fratello, fa parte della mia vita.

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