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Filippine: l’esempio che trascina più della corrente del fiume

 
24 Luglio 2020   |   Filippine, Architettura, #daretocare
 

Nuotare controcorrente è una sfida. Farlo in un fiume inquinato aumenta la difficoltà. Nonostante gli ostacoli, un’insegnante nelle Filippine ha deciso di fare sue le ferite più profonde di un’area urbana, per trasformarle positivamente, sensibilizzando la cittadinanza.

Di professione fa l’architetto, per vocazione è educatrice e tessitrice di rapporti con le comunità. Si chiama Maria Cynthia Funk, chiamata Choie (Loli) Funk e insegna alla Scuola di Design e Arte del Collegio De La Salle di Saint Benilde (Manila). Sgomenta di fronte agli alti livelli di inquinamento intorno al fiume Pasig, nel cuore di Manila, ma allo stesso tempo ispirata da questi, assieme ai suoi studenti ha iniziato a pensare ad un modo creativo per recuperare quegli spazi pubblici.

Negli ultimi decenni, Manila è stata urbanizzata ad un ritmo molto rapido. La popolazione è passata da 5 milioni nel 1975 a 12 milioni nel 2010. La capitale filippina è piena di baraccopoli dove oggi vivono circa 3 milioni di persone. I fiumi, come il Pasig, che attraversano la città, le strade e le discariche, accumulano circa 6.000 di tonnellate di rifiuti al giorno.

In questo panorama così fosco è nato il “Progetto Padiglione Estero” (“Estero Pavillion Project”). Giovani studenti e professori di due scuole e tre università hanno progettato la struttura di un padiglione in bambù destinato ad unire due ponti pedonali, con l’obiettivo di creare spazi pubblici che favoriscano le relazioni sociali che coinvolgano la comunità e rafforzino lo spirito di cura dello spazio fisico, delle relazioni e dell’ambiente. “Stiamo rispondendo ai problemi esistenti: povertà, droga, persino una cultura della morte. Tutto è collegato e il governo non può essere l’unico a prendersi cura delle persone”, spiega Loli, sottolineando il ruolo fondamentale dei cittadini nell’affrontare certe problematiche.

Il progetto è composto di tre spazi. Tre strutture di bambù che, insieme, creano un unico ambiente. La prima, per i giovani, chiamata “Laro”, è destinata al gioco e alla ricreazione. La seconda, chiamata “Tambay”, è uno spazio pensato per la convivenza, per favorire la costruzione di relazioni comunitarie e per la condivisione di esperienze. La terza, chiamata “Kain”, è un’area specializzata per la promozione della cultura del cibo che, allo stesso tempo,  può essere anche un mezzo di unione tra i membri della comunità. Il progetto sembrava fisicamente, esteticamente e socialmente ingegnoso ed emozionante. Ma qualcosa è andato storto e i padiglioni già costruiti sono scomparsi.

I nodi nel bambù

Gli steli di bambù sono caratterizzati da nodi o culmi segmentati. Questi nodi rafforzano la canna del bambù ed è proprio da lì che nascono i suoi rami. Senza i nodi, il bambù sarebbe una struttura debole e inutilizzabile.

Per Loli, una società senza “nodi”, cioè senza relazioni costanti, senza una cultura della responsabilità e della cura per gli altri, è una struttura fragile. È stata proprio quella comunità senza nodi a indebolire l’esperimento sociale. I padiglioni sono stati rubati, l’inquinamento del fiume continua e la mancanza di spazi pubblici rimane un problema, ma non l’unico. “Nelle Filippine facciamo di tutto per sopravvivere. Ognuno lavora da solo per uscire dalla situazione in cui si trova. Questo è molto doloroso per me, perché non voglio dire cose brutte sulla società, ma a volte la chiamo la società degli orfani”, risponde Loli, quando viene interrogata sulle difficoltà e le molteplici preoccupazioni sociali che hanno ostacolato questo processo, e ricorda i tanti dolori che assediano queste comunità. Anche in tempi di pandemia e di confinamento, qui, la sofferenza più immediata non è necessariamente quella di prendere il virus, “molti di loro moriranno di fame, prima che di Covid” osserva Loli.

Vedere così tanti giovani con la forza e l’energia per fare molte cose la motiva, ma sottolinea che c’è un grande bisogno di consapevolezza e di dare senso alle cose che fanno. Per questo, aggiunge, l’educazione gioca un ruolo fondamentale. Imparare a prendersi cura degli altri non è qualcosa che si ottiene da un giorno all’altro, ma se una persona lo vuole e lo condivide con un’altra, l’idea si diffonde e crea una cultura. “Una cultura è qualcosa che ti porti dentro e che ti permette di costruire qualcosa con gli altri. Abbiamo creato una cultura che non si cura e non protegge, quindi programmi come #DareToCare sono ottimi, perché ci ricordano che prendersi cura delle persone è una sfida, una scelta e un impegno“, dice Loli.

La mia scelta è quella di essere un costruttore di comunità, questa è l’architettura che voglio praticare. L’architettura va oltre gli edifici, è un servizio.
Loli Funk

La decisione e la vocazione di Loli di prendersi cura degli altri è più forte della corrente del fiume e più resistente di qualsiasi struttura. Questa esperienza l’ha portata a capire che il progetto non è terminato e che è sbagliando che si impara.

“Il padiglione Estero è un esperimento sociale perché può fallire, anzi fisicamente è fallito, perché ora il padiglione non c’è più. Bisogna essere preparati: politicamente, socialmente ed economicamente”, spiega Loli, aggiungendo che ” il bello di un esperimento è l’esplorazione, e a questo punto, qualunque siano stati gli errori, non sono errori, sono lezioni. Quel che ne segue è la creazione di conoscenza”.


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