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Workshop

Cameroun, non solo mascherine

 
 

Focus sul Cameroun, dove la popolazione sta vivendo una situazione economica e sociale drammatica, aggravata dalla pandemia, ma dove non mancano forti iniziative di “amicizia sociale”.

Per prendere il Mal d’Africa ogni Paese del Continente è buono, ma il Cameroun un po’di più, dicono alcuni viaggiatori esperti. È una regione molto particolare che riserva differenze naturalistiche, culturali ed etniche che non lasciano indifferenti, una varietà geografica, dalle coste del Golfo di Guinea alla catena montuosa che si estende dal monte vulcanico Cameroun, la Savana, gli altopiani e i tavolati centrali e la foresta pluviale meridionale. Con i suoi 250 gruppi etnici, il Paese si distingue anche per varietà sociale, religioni e dialetti; una realtà unica al mondo alla quale non manca proprio nulla. Nemmeno il conflitto.

Dal 2016 infatti è in corso una violenta crisi sociale che ha portato i nazionalisti anglofoni a creare dei gruppi separatisti che seminano scontri e violenza in tutto il Paese, con fatti atroci che si verificano spesso ai danni dei civili. Gli islamisti di Boko Haram alimentano la paura, e la recente crisi dovuta alla pandemia ha solo aggravato un quadro economico e sociale già abbastanza drammatico, andando a colpire soprattutto persone che vivono alla giornata con lavoretti e piccoli espedienti.

In questa terra, meravigliosa e ferita, operano alcuni Ambasciatori per un Mondo Unito: sono 19 giovani che, grazie al lavoro di New Humanity NGO, con altri giovani di diverse aree del mondo, sono formati alla cultura dell’unità, della pace e della fraternità, per essere nei loro Paesi change-makers, peace-builders e leader di comunità: dei veri e propri “ambasciatori”, appunto, di un mondo unito, in grado di diventare portavoce della NGO a livello nazionale e internazionale.

Tra loro c’è anche Mabih Nji, 34 anni, insegnante universitaria alla Catholic University, nella Capitale, Yaoundé:  «Vedevo la necessità per il mio Paese di essere Ambasciatore,  perché l’Ambasciatore per un Mondo Unito dà voce alla gente che non può parlare, è voce di chi non ha voce. E io che posso parlare lo faccio..»

È un fiume in piena Mabih, parla un italiano impeccabile grazie a periodi di studio in Europa. Con grande naturalezza ci racconta come, insieme al suo gruppo di lavoro, che poi sono gli altri ambasciatori, si è dovuta muovere: «Ci saremmo potuti bloccare per le tante, troppe cose da fare, e allora ci siamo concentrati soprattutto sui più vulnerabili. Abbiamo scoperto così che c’erano molte cose che si sarebbero potute fare concretamente e ci siamo messi a lavoro».

Ma come? Gli ambasciatori non dovrebbero lavorare a livello di NgO nazionali e internazionali?  Verrebbe da dirlo, e invece no, qui c’è un metodo che parte da un diverso punto di vista; qui si parte dalla testimonianza e dall’azione portata avanti a livello di comunità; è il primo passo per generare idee nuove che poi, proposte anche ai livelli più alti diventano “sistema” per tutti, e generano cambiamento culturale.

È così che i nostri ambasciatori a Yaoundé hanno iniziato.

«Era molto evidente» – continua Mabih -« all’inizio della Pandemia, che una buona parte della popolazione non avrebbe potuto permettersi di acquistare i dispositivi di protezione, come le mascherine. Essere inclusivi, non lasciare indietro nessuno, ha significato in quel momento diventare loro ambasciatori. Raccogliendo questo bisogno abbiamo iniziato un’azione congiunta con 4-5 imprenditori che aderiscono al progetto di Economia di Comunione, producendo mascherine da distribuire ai più bisognosi».

A Yaoundé sono state distribuite 700 mascherine, mentre centinaia di dispositivi sono stati spediti in altre città come Bamenda e Bafousa.

Sono stati presi di mira gli orfanotrofi, i centri sanitari nelle zone remote del Paese, in modo che anche gli abitanti delle aree più periferiche potessero avere un beneficio: il Centre de Santé Social Pilote Odzon, il Centre de Santé Integré de Ngoya e l’Orfanotrofio Case Zamengoe, solo per fare alcuni nomi.

«Ci siamo accorti che la cosa più importante non è stata la mascherina in sé, ma la relazione costruita con chi ha lavorato, con i beneficiari, con gli imprenditori. È stato un intero processo, portato avanti insieme a essere vincente, e ha dato segnali di controtendenza rispetto a quanto è successo nel resto del Paese dove, forse per la paura, ognuno ha pensato più a sé stesso».


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