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Un’adolescenza reale in una fiction cruda: Adolescence, uno specchio sociale

Adolescence, la serie di Netflix che ha trionfato in tutto il mondo, ritrae con durezza il lato invisibile della violenza adolescenziale. Ne abbiamo parlato con la psicologa Macarena Sanjuan, sui dolori e le disconnessioni di quell’universo.
Affrontando il delicato tema dell’educazione, ci è venuta in mente una delle serie più forti e popolari di questo 2025: Adolescence, su Netflix. Abbiamo pensato di parlarne con una persona che lavora con l’argomento, come la psicologa argentina Macarena Sanjuan, che lavora in un programma statale contro la violenza su bambini, bambine e adolescenti.
Macarena è psicologa clinica con un approccio alla terapia basato su evidenze scientifiche e abbiamo ragionato sul fatto che Adolescence ci parli del presente difficile degli adolescenti, di una società dove i social sono armi, dove la scuola è incapace di aiutare davvero i ragazzi. Di genitori in difficoltà, e di quanto, al di là del presente complesso, il rapporto tra genitori e figli sia qualcosa di profondo, complicato e incontrollabile.
Sta in questa doppia possibilità di lettura, il valore della serie?
Credo che il suo valore risieda in questi due punti di vista, perché Adolescence non presenta un caso da risolvere: dal primo episodio sappiamo che è il protagonista è l’autore dell’atto di violenza. È proprio questo che la serie vuole mostrare: come nella quotidianità possano nascere situazioni di violenza in modo silenzioso e invisibile: in un rapporto quotidiano, in una famiglia, in un adolescente, in una scuola superiore. Adolescence cerca di mostrare quanto siano fondamentali i contesti, cioè quanto la famiglia e la scuola svolgano ruoli molto importanti nell’adolescenza, e come possano essere fattori di protezione o rischio. Inoltre, oggi l’adolescenza è attraversata dai social media e dalla tecnologia, e questo viene vissuto in solitudine o con poche reti adulte di supporto. Pensiamo che allontanandoci, o allontanando gli adolescenti dai social, non parlando dell’argomento, si evitino certe situazioni. Accade il contrario.

Eddie, il padre di Jamie, che uomo è? Non sembra un genitore particolarmente condannabile: ha limiti, fragilità, non sa gestire le debolezze del figlio. Non ha saputo parlargli davvero, ma somiglia a tanti padri comuni. Eppure, suo figlio uccide una coetanea a tredici anni. Che idea ti sei fatta del padre di Jamie? Chi è, che responsabilità ha?
Vediamo questo padre inizialmente in modo sospettoso; poi lo scopriamo comune, normale, con una reazione che potrebbe avere qualsiasi altro genitore, con momenti di disregolazione emotiva o atteggiamenti più aggressivi, dovuti al fatto che non comprende la situazione. Come chiunque, non riesce a credere che suo figlio sia stato capace di fare ciò che ha fatto. È una situazione estremamente difficile da affrontare. Nessuno è preparato a qualcosa del genere. Tuttavia, emerge come sia il padre che la madre di Jamie, inizino a porsi domande: avrebbero potuto accompagnarlo in modo diverso? Hanno responsabilità? La serie mette in discussione i ruoli e le funzioni dei genitori, non dal punto di vista della colpa, ma del dubbio, della responsabilità e della vicinanza emotiva con un figlio.
C’è un altro padre, nel film: il poliziotto, ovvero il papà di un adolescente che va nella stessa scuola di Jamie, e non è particolarmente popolare. Questo secondo padre ha il merito, o forse la fortuna (avendo visto l’accaduto) di prendere suo figlio con sè e parlarci davvero. Gli dice verso la fine del secondo episodio: “Oggi stiamo insieme e parliamo, perchè ti voglio bene”. Può essere questo a fare la differenza, in un tempo così difficile? Trovare il modo, di ascoltare davvero i nostri figli?
Penso che ogni famiglia sia diversa e che questa serie mostri due modi di relazionarsi all’interno di una famiglia. In questo caso, anche il padre poliziotto non aveva una grande comunicazione con suo figlio. Non sapeva nemmeno se andasse a scuola, com’erano i suoi legami, pensieri o sentimenti. Tuttavia, c’è questo momento di connessione. Entrambi lo vogliono: il figlio desidera parlare e il padre ascoltare. Ecco il dialogo attraverso l’ascolto. Ascoltare senza giudicare, senza criticare. In quella sequenza, il padre semplicemente ascolta, accoglie, accompagna il figlio nella realtà che sta vivendo. Si avvicina. Come dicevo prima , allontanarci o evitare i social media non è il modo per gestire meglio certe situazioni. Lo è piuttosto creare spazi di dialogo, di vicinanza senza pregiudizi, validando le emozioni degli adolescenti, riconoscendo le situazioni che li attraversano.
Mi ha colpito molto la lingua che gli adolescenti usano attraverso gli emoji. Una lingua fatta di parole precise, significati impossibili da capire per i genitori. Sono il segno di una grande frattura tra genitori e figli?
Evitando di toccare il tema dei social media non riusciremo a controllarli. È l’opposto. I social esistono! Non possiamo cambiarli né controllarli. Dobbiamo imparare a relazionarci con loro. Più ci allontaniamo o neghiamo la loro presenza, meno conosceremo il mondo in cui vivono oggi gli adolescenti. In questo mondo esiste ciò che la serie ci mostra: emoji con significati particolari, app, giochi… tutto ha un linguaggio che, se non lo impariamo, è come se parlassimo un’altra lingua. Per questo è importante creare spazi di dialogo, avvicinarsi con interesse, curiosità, per capire. Non per giudicare. Io lavoro con adolescenti e mi insegnano continuamente cose nuove: parole, termini, applicazioni, modi di usare i social. Anch’io ho i social, ma non li uso nello stesso modo loro. Bisogna condividere per poter accompagnare.

La scuola in Adolescence non fa una bella figura. Tutto il secondo episodio ci mostra i suoi limiti evidenti. Quanto è fragile e quanto dovrebbe essere importante la scuola per i giovani?
È una domanda ampia e complessa, perché la scuola ha diverse funzioni ed è un’istituzione complessa. Riguarda molte necessità, e tutto dipende dal luogo e dal contesto di cui si parla. Non è lo stesso parlare di una scuola come quella della serie, in Inghilterra, o quella che conosco io in Argentina o in altri luoghi dell’America Latina. Penso che le scuole abbiano un ruolo fondamentale e rispondano al contesto in cui sono inserite. Posso parlare da qui, dove andare a scuola non significa solo apprendere sul piano accademico, ma anche ricevere cibo, supporto e vestiti.
Possiamo dire che una sua funzione certa è educare?
Educare è la funzione principale della scuola e credo che dovremmo trovare nuove modalità, perché i bisogni degli adolescenti di ieri non sono gli stessi di oggi. È necessario creare spazi dedicati all’educazione emotiva, con materie che possano affrontare e mettere in discussione pensieri, relazioni, ideali, andando oltre l’aspetto accademico. A scuola succedono molte cose. Si costruiscono relazioni, emozioni, modi di connettersi o disconnettersi dagli altri. In una società in cui siamo apparentemente sempre connessi attraverso i social, ma allo stesso tempo profondamente disconnessi, la scuola rappresenta un luogo di connessione, ma di altro tipo: una connessione faccia a faccia.
Nella serie si parla di cultura INCEL. Quanto ne sappiamo e quanto davvero è diffusa tra i giovanissimi?
A dire la verità, non conoscevo la cultura INCEL prima di vedere Adolescence. Appena l’hanno nominata, la prima cosa che ho fatto è stata cercare di informarmi di più, e credo che questo faccia parte proprio della mancanza di conoscenza, del nostro scarso coinvolgimento nei temi che vivono gli adolescenti. Ho pensato anche ad alcune figure come gli influencer o le persone che si esprimono attraverso i social e promuovono questo tipo di culture violente. Anche questo va reso visibile, messo in discussione. Bisogna creare spazi in cui ci si possa chiedere se tutto questo sia davvero positivo o no, cosa ne pensiamo, cosa pensano gli adolescenti di questa cultura maschilista e violenta. Una cultura che continua ad esistere, ora anche dietro a uno schermo.

Di Jamie, colpisce la fredda intelligenza. A volte dà l’impressione di avere dentro una follia per certi versi rassicurante, perché lo rende diverso da tanti adolescenti, ma altre volte sembra un ragazzo normale, e questo inquieta ancora di più. Perché ci inquieta così tanto?
Credo che ci preoccupi così tanto perché è un adolescente qualunque, un ragazzo come tanti che, senza bisogno di etichette, vive difficoltà e commette un atto profondamente violento. Ci parla del fatto che l’adolescenza è una fase complessa perché c’è un essere umano in fase di sviluppo. Siamo sempre in evoluzione e apprendimento, ma l’adolescenza è un momento di pieno sviluppo, una costante ricerca di identità: chi sono, cosa mi piace, cosa voglio fare, come voglio essere. Sono domande molto intense.
Tornando a Jamie?
È un adolescente come tanti, che compie qualcosa di estremamente atroce, doloroso e difficile da comprendere . Jamie ci mostra la mancanza di accompagnamento, la paura che si può provare in un’età in cui i legami e la dimensione sociale sono tanto importanti. La paura di essere giudicato per non rispondere alle norme o agli stereotipi. È un ragazzo che perde il controllo emotivamente. Ecco perché è così importante accompagnare con un’educazione emotiva, con spazi e relazioni che permettano di trovare strumenti e competenze per relazionarsi con le proprie emozioni, dubbi e domande.
Possiamo dire che Jamie è solo?
Lo è abbastanza. Non perché non abbia nessuno: ha una famiglia, una scuola, degli amici, ma è solo con ciò che gli accade dentro, con i suoi pensieri e sentimenti. Ci scuote tanto e ci inquieta perché, da un lato, è un ragazzo di 13 anni che va a scuola, vuole uscire con gli amici; ma dall’altro è un ragazzo che, internamente, sta affrontando paure, ansie, incertezze, rabbia, e finisce per compiere l’atto più violento.
In sintesi, e conclusione, che idea ti sei fatta di Adolescence?
La serie non ci lascia un messaggio, una morale o un insegnamento preciso, ma ci lascia con più domande che risposte: perché succede questo? Può succedere a chiunque? È davvero così o no? Credo che questo sia l’aspetto bello e innovativo della serie, che nella sua forma cruda e realistica cerca di farci porsi delle domande, quelle domande che permettono di avvicinarsi a un dialogo più vero, un dialogo più genuino con gli adolescenti, con una rete di adulti che accompagni l’adolescenza. Che non la giudichi o critichi con lo sguardo adulto, ma che la possa accompagnare e convalidare, perché è una fase piena di emozioni intense, di grandi ricerche. Credo che gli adolescenti abbiano bisogno di adulti che li accompagnino, che siano presenti. E noi adulti abbiamo bisogno degli adolescenti che ci insegnino, ci condividano, ci mettano in discussione, perché alla fine crescere e far crescere è sempre un atto condiviso.