United World Project

Workshop

La musica non conosce frontiere

 
13 Febbraio 2018   |   , ,
 

Abbiamo intervistato Nancy Uelmen, compositrice, cantante e tastierista del gruppo artistico internazionale Gen Verde.

Nata e cresciuta a Los Angeles, Nancy Uelmen vive e lavora da venticinque anni fra le colline toscane, insieme alle altre ventuno donne che compongono la band. Ci ha raccontato del suo rapporto con la musica e del potere che ha quest’arte di costruire legami di fraternità fra i popoli.

Nancy, cos’è per te la musica?

La musica, per me, oltre ad essere una grande occasione per esprimere ciò che si ha dentro, è qualcosa che ci unisce tutti, perché è un linguaggio che va oltre le lingue. Pensando alla mia esperienza, non posso che constatare che la musica è un’arte potentissima per creare ponti di fraternità. Perché la musica è facile da capire: una canzone viene ascoltata più volentieri, anche da chi è diverso da te, rispetto ad un discorso.

Il Gen Verde, gruppo di cui fai parte, vuole dire al mondo che si può scegliere la pace contro la guerra, la coesione invece dei muri, il dialogo anziché il silenzio. Come mai pensi che proprio la musica sia un veicolo privilegiato per costruire fraternità e trasmettere questo messaggio?

Perché la musica è armonia. Per sua natura, la musica è fatta di diversi elementi che devono ascoltarsi a vicenda e “donarsi” a vicenda. Suonare insieme, con altri, è un’occasione in cui ognuno può essere se stesso, ma allo stesso tempo fare spazio all’altro. È così che viene fuori l’armonia.

Far spazio all’altro e alla sua prospettiva, mettersi nei suoi panni come primo passo per costruire la pace. Questo è ciò di cui parla il vostro ultimo album, On the Other Side

Si, le canzoni del nostro ultimo album raccontano le nostre storie personali e le storie di alcune persone che nella storia recente hanno saputo vivere così, fino a dare la vita in situazioni estreme. La canzone che dà il titolo all’album significa “Dall’altra parte”, e si ispira alla regola d’oro comune alle grandi religioni. Nel ritornello viene ripetuta più volte la frase “No one is a stranger to me”, nessuno è straniero per me, che è tratta dalle Scritture della religione Sikh. La canzone dice anche “Ciò che desidero per me lo desidero anche per te”, che è una citazione del Corano. Abbiamo scritto questa canzone in previsione proprio di un’esperienza che avremmo fatto in Gran Bretagna, durante una tournée, nel contesto multiculturale della città di Birmingham.

Com’è andata?

È stata un’esperienza molto forte. Abbiamo lavorato con quattro giovani musicisti Sikh per creare un pezzo da suonare insieme durante un concerto. I Sikh fanno musica sacra, e in genere suonano soltanto nel loro luogo di culto. Il fatto che avessero accettato di lavorare con noi, quindi, era già eccezionale. Abbiamo cercato di entrare nel loro approccio alla musica, molto diverso dal nostro, e di far nostre le loro abitudini, come quella di suonare per terra. Ci siamo rese conto di quanto il concetto di servizio fosse importante per loro, di quanto rimanessero colpiti dai piccoli gesti, come l’offrire un bicchiere d’acqua. Ho capito che, se ci si mette in una dinamica di servizio, si può costruire tanto. Il concerto, poi, è stato bellissimo. Qualche giorno dopo, uno dei musicisti ci ha detto: “Mia madre mi ha sempre detto di non fermarmi mai sulla strada di ritorno dalla Gurdwara [luogo di culto], perché solo andando dritto a casa posso portare lì quel senso di sacro. Ho sentito la stessa cosa tornando a casa dal concerto. Io e mia moglie abbiamo sentito che non potevamo fermarci a mangiare, perché dovevamo portare l’esperienza vissuta, così sacra, a casa”. Torneremo a Birmingham in autunno: il dialogo va avanti e ci hanno invitate per un’altra tournée.

Il vostro messaggio si rivolge in particolare ai giovani, con cui organizzate workshop e preparate concerti. Quale risposta riscontrate?

Il titolo dei nostri workshop con i giovani è “Start Here, Start Now: il dialogo, l’unità, la pace, iniziano da me”. Prima di iniziare la giornata, con i laboratori di danza, teatro, canto e percussioni, ogni giorno lanciamo un “motto”, una sfida da vivere per quel giorno per essere costruttori di pace. Il primo giorno, ad esempio, scegliamo come tema “mettermi nei panni degli altri”: una di noi racconta una sua esperienza, ed è un invito ai giovani a vivere la giornata, il quotidiano, mettendosi in quell’ottica. Dopo i workshop artistici, con i giovani facciamo le prove e lo spettacolo, e l’ultimo giorno abbiamo una sessione di feedback, durante la quale molti ragazzi ci dicono di essere rimasti colpiti proprio dai “motti”. Vogliamo aiutarli a capire che, se si prova a vedere le cose in un altro modo, si può costruire il mondo unito anche nel piccolo. Attualmente stiamo lavorando ad un nuovo album, ispirato proprio al nostro lavoro con i giovani, che ci ha permesso di conoscere più da vicino le problematiche che vivono e le loro aspirazioni. In particolare, sentiamo molto in loro la ricerca del valore della vita umana, il bisogno di sapere che ognuno di noi possiede una luce dentro, e che questa luce si può donare amando gli altri. Crediamo che un album incentrato su queste tematiche possa completare il messaggio di “On the Other Side”.

Immagino che durante ogni workshop, quindi, si sprigioni una grande forza…

Sì, e questa forza la sperimentiamo ovunque andiamo, anche in Asia, ad esempio, a Taiwan, Hong Kong e Macau, dove siamo state due anni fa. Lì, accanto ai pochi cristiani, c’erano buddisti e soprattutto molti giovani di convinzioni non religiose. Ma la musica ha permesso a tutti di andare al di là delle differenze, a partire dalla testimonianza che noi artiste abbiamo dato del rapporto di unità che c’è fra noi, nonostante le diverse culture a cui apparteniamo. Di recente siamo state anche in Germania, e lì abbiamo realizzato un workshop in un campo di rifugiati. Il concerto finale si è tenuto proprio la sera delle elezioni politiche, e molti erano in apprensione a causa del clima di opposizione all’accoglienza dei migranti che si respirava in quei giorni. Alla fine della serata, uno dei partecipanti ha detto: “Sono arrivato qui molto preoccupato per come sarebbero andate le elezioni, ma uscendo ho capito cosa devo fare: vivere questo messaggio, mettermi nei panni dell’altro con speranza e con la consapevolezza che qui ho conosciuto un altro modo di vivere”.

Alla luce della tua straordinaria esperienza di vita, hai un consiglio da dare a chi fa musica e sente di volerla mettere al servizio di qualcosa di più grande?

Penso che avere quest’aspirazione sia già un ottimo inizio. Credo che la chiave sia vedere il talento come un dono, e non aver paura di darlo. Personalmente, sono molto timida, e non pensavo di fare musica di mestiere. Quando ho capito che potevo farlo come dono per gli altri, sono riuscita ad andare al di là della mia timidezza. Un’altra cosa importante è l’ascolto dell’altro, il capire come le proprie intuizioni artistiche possano essere di luce per l’altro. Fare musica è bello di per sé, ma quando a questo si aggiunge il volerne fare un dono, e lo si fa insieme ad altri, è ancora meglio. Allora, la musica realizza pienamente la sua essenza. Penso che Dio abbia inventato la musica proprio per questo, perché ci unisce.


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