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Libano: dalla terra, una lezione di “vita buona”

 
16 Novembre 2017   |   , ,
 

«Il Libano? Beh, il Libano è un vero e proprio caso di studio, un laboratorio del mondo del ventunesimo secolo. Oggi, nel mondo, le idee, le informazioni e le persone circolano con estrema velocità, e ciò fa sì che anche in quei paesi dove un tempo si poteva parlare di maggioranza e minoranze, oggi sia sempre più radicata la presenza dell’altro, del “diverso”. Ecco, il Libano è così da sempre: siamo un paese dove non esistono maggioranza e minoranze. Siamo metà cristiani, metà musulmani, metà gente di mare, metà abitanti della montagna…».

Kamal Mouzawakimprenditore, attivista e scrittore gastronomico, mi racconta il suo paese al telefono, mentre sullo sfondo si distinguono i suoni del traffico di Beirut. E come si vive in un paese così? Qui come altrove, tutto dipende da come si sceglie di guardare alla diversità.

«Possiamo aver paura gli uni degli altri, e continuare ad annientarci a vicenda come abbiamo fatto per troppo tempo, oppure a un certo punto possiamo fermarci a riflettere», spiega. Riflettere, e chiedersi se davvero le differenze politiche, di religione e di etnia debbano avere l’ultima parola, oppure se esiste un qualcosa che, al di là di tutto questo, unisce il popolo libanese. La risposta, secondo Kamal, figlio di agricoltori, è nella terra stessa: «abitiamo la stessa terra, la coltiviamo allo stesso modo, e cuciniamo i suoi prodotti alla stessa maniera».

Così, da un’intuizione, e soprattutto da una passione per la terra e per la sua gente, nel 2004, Kamal lancia “Souk el Tayeb“: un mercato, ma non uno qualsiasi. È il “Mercato Buono” (è proprio questo che il nome del progetto significa in arabo), dove tra un pezzo di pane al timo e sesamo e un assaggio di miele di fiori d’arancio si costruiscono legami e si unisce un popolo. In fondo, cosa parla di un popolo meglio del suo cibo?

Ogni settimana, per due giorni, Beirut è invasa dai colori e dai profumi dei prodotti più freschi delle campagne del Paese, portati in loco dagli stessi produttori. In questo rapporto diretto con i consumatori, gli agricoltori ricevono il riconoscimento per il proprio lavoro e il giusto prezzo, mentre per gli acquirenti della città, oltre ad essere una garanzia di freschezza e genuinità, il Souk è anche il luogo in cui regioni distanti, a malapena conosciute e spesso oggetto di pregiudizi, diventano persone con un volto, una storia e un patrimonio culinario da condividere.

Per permettere una conoscenza reciproca ancora più profonda, e per far comprendere quanto la periferia sia essenziale allo sviluppo e alla crescita dell’intero Paese, poi, Kamal e i suoi collaboratori si sono spinti oltre i confini della città, organizzando festival culinari nelle varie regioni, portando la gente di Beirut nei luoghi stessi in cui vengono prodotti i loro cibi preferiti.

«Così è più semplice capire che il latte, ad esempio, non nasce confezionato in un cartone su uno scaffale del supermercato, ma c’è qualcuno che lo produce, impiegando molto tempo ed energia», racconta il fondatore del progetto, «e questo qualcuno vive nelle zone rurali, che meritano di crescere e di godere di una vita buona tanto quanto la città».

Souk el Tayeb è anche una cucina, anzi, una “tavola”: dall’esperienza del mercato e dei festival regionali, infatti, sono nati sei ristoranti, denominati Tawlet (tavola, appunto) in diverse parti del Libano. Il principio è semplice: qui è come a casa. Tra le persone coinvolte nel Mercato Buono, ci sono infatti molti appassionati di cucina, soprattutto donne, depositarie delle ricette tradizionali e del buon gusto tipico del Paese, che, come a casa loro, trovano nelle cucine di Tawlet uno spazio per condividere la propria identità e il proprio talento.

Tawlet Beirut, ristorante piazzatosi al nono posto nella classifica 2016 dei migliori ristoranti al mondo secondo la rivista Monocle, è una fucina nazionale, e ospita ogni giorno una cuoca proveniente da una regione diversa e le sue specialità: da quelle di Sona Tikidjian del quartiere armeno di Bourj Hammoud al pesce fritto con aglio e coriandolo tipico di Tripoli, città di Josephine Ghaleb. Ai visitatori sono proposte esperienze culinarie ricche e sorprendenti, e altrettante opportunità di scoperta e conoscenza del “diverso”. Tawlet non è semplicemente un’esperienza epicurea legata al cibo: il cibo, qui, è un veicolo d’incontro. 

«Abbiamo scelto di fare del cibo il fulcro del nostro progetto», afferma Kamal, «perché il cibo è l’espressione più semplice dell’identità, della tradizione». Proprio come l’architettura, il costume, la musica, la danza. Il cibo, però, è qualcosa di immediato, che va oltre lo spazio e il tempo, racchiudendo in sé la vita e la storia di una nazione. E soprattutto, è qualcosa che, per sua stessa natura, unisce al contempo chi condivide la tavola e chi prepara da mangiare. Come è successo con Mona, musulmana sciita del sud, e Suzanne, cristiana maronita del nord, entrambe famose per il loro kibbeh, una ricetta a base di carne che a volte preparano insieme.

«Non si può cucinare con un nemico. Così anche loro due non possono lavorare insieme se non sono una famiglia», dice Kamal quando gli chiedo di raccontarmi qualcosa di queste due donne, «bisogna prima creare uno spazio di fiducia reciproca». Suzanne e Mona quello spazio l’hanno trovato fra gli stand del Souk, dove si incontravano prima di essere invitate a cucinare a Tawlet.

«Qui si viene con un atteggiamento di accoglienza nei confronti dell’altro»: è la regola del Mercato Buono. «Anche se hai avuto problemi con l’altro in passato, quando vieni qui decidi di voltare pagina e di guardare l’altro da un’altra prospettiva, come un altro te stesso. Lui o lei può avere un’opinione politica o una fede diversa, ma, in fin dei conti, condivide le tue stesse paure, gli stessi problemi e le stesse speranze», spiega Kamal. Ecco allora la scelta: rimanere arroccati sulle differenze, o puntare su ciò che si ha in comune e provare a vivere insieme. È la sfida di quest’impresa che coniuga in sé responsabilità sociale e rigore nella gestione aziendale.

Anche a Sidone, nel sud del Paese, c’è una “tavola” firmata Souk el Tayeb. Qui, la cucina ospita ogni giorno un gruppo di donne del centro storico della città fenicia, alcune delle quali libanesi, altre appartenenti alle comunità di rifugiati siriani e palestinesi.

Sidone oggi è una città povera che vive una situazione sociale difficile. Negli ultimi tempi, attraverso fondi pubblici è privati, si è cercato di dare nuova linfa al quartiere dell’antico mercato. Il ristorante, ultimo gioiello della famiglia Tawlet, sorge proprio qui, ed è stato creato in partenariato con la Fondazione Hariri per lo Sviluppo Umano Sostenibile, allo scopo di potenziare e accrescere le competenze della comunità femminile locale e valorizzare il patrimonio culinario dell’antica regione. All’inizio del 2017, poco prima dell’apertura del nuovo ristorante, Kamal ha confidato al quotidiano britannico Guardian un’altra sua speranza per questo luogo: che la gente di Beirut in visita al ristorante possa conoscere da vicino gli abitanti di Sidone, facendo così crollare i muri creati dalla paura di una zona percepita come ghetto, e quindi come pericolosa.

«Che entrambe le parti possano incontrarsi, conoscersi, e capire che, in realtà, “l’altro” non esiste», ha detto.

Lo scorso 5 novembre, Tawlet Beirut ha festeggiato i suoi primi otto anni di vita. Sedici le cuoche presenti, per raccontare la storia del Libano attraverso i loro piatti, una storia che Kamal Mouzawak vuole continuare a far conoscere, con nuovi ristoranti, nuove ricette e nuovi protagonisti.

«Un mio sogno è da sempre quello portare il modello Souk el Tayeb all’estero,» mi dice «mi piacerebbe avviare un progetto simile a Parigi o Milano, e invitare le donne della città e della regione, le donne delle diverse comunità presenti in quel luogo, a riunirsi e a cucinare insieme».

Andare avanti, insomma, nell’aprire spazi inediti di convivenza e fiducia attraverso l’arte culinaria.


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