United World Project

Workshop

Migrazioni: cosa posso fare io?

 
11 Luglio 2015   |   , ,
 

Chi è il migrante? Nel 2013, l’ONU ha ritenuto che nel mondo si siano spostate 232 milioni di persone. E definisce il migrante come “una persona che lascia il proprio Paese per motivi di lavoro e si stabilisce in un altro posto per un periodo superiore a 12 mesi”. «È l’unica definizione che si trova … che ritengo piuttosto riduttiva – sottolinea Flavia Cerino –. Infatti, ci sono i rifugiati (quelli che hanno bisogno di un asilo politico presso un altro Paese), i profughi che fuggono da situazioni di guerra, i cosiddetti “clandestini” (che si spostano senza avere un documento idoneo a entrare in un altro Stato). E anche le ragioni sono le più diverse: guerra, povertà, studio, interessi culturali, catastrofi naturali … Quindi le condizioni umane che si racchiudono in una sola parola, migrante, sono molto diverse».

Quali sono le parole più ricorrenti nei report dei lavori di gruppo svolti durante la scuola internazionale di Umanità Nuova in cui si è affrontato questo tema? Durante i workshop ne sono venute alcune in particolare evidenza. «La prima è “paura”; una paura di qualcosa che è diverso da me – continua Cerino –. In realtà la diversità (lo vediamo nella natura, anche la diversità biologica), è una grande ricchezza. Perdendola saremmo destinati all’estinzione. Bisogna considerare ovviamente la paura che nasce dell’insicurezza e che ci porta al tema dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale. Un conto, quindi, è l’ordine pubblico e un conto è la paura della diversità.

Un altro aspetto che è stato ripreso con frequenza è quello della famiglia. Il migrante che parte da solo lasciando la famiglia, difficilmente descrive le difficoltà che trova per non far preoccupare i suoi cari. Invece si dovrebbe arrivare a riferire alla propria famiglia la situazione reale in cui vive, per una piena consapevolezza di ciò che implica la migrazione, anche in vista della riunificazione della famiglia, perché in genere le famiglie mirano a rimanere insieme.

Un’altra parola emersa: intercultura. E cioè la capacità di superare la paura della diversità per creare luoghi, spazi, ambienti di incontro e di conoscenza. Che non è solo di tipo culturale, ma appunto esistenziale, di condivisione di problemi. Il migrante deve essere messo in condizione di dare: invece lui stesso ritiene di non avere niente da dare quando non è riconosciuto come persona, quando non può esercitare cittadinanza attiva e quindi è escluso a priori».

Flavia Cerino cita una domanda che Igino Giordani si poneva già tanti anni fa: “Che faccio io per costui?”, riferita proprio all’immigrato. «È la domanda che ci facciamo ora noi. Cosa facciamo? Ci sono miriadi di esperienze, grandi iniziative. La mia esperienza e quella di tanti di voi si muove su due elementi: il primo è che tutto nasce da una sensibilità personale. Cioè io, persona, mi sento interpellata e messa in discussione da un problema che vedo nel mio vicino di casa, nella realtà in cui vivo. E cerco di capire cosa posso fare, rivolgendomi alle persone e istituzioni che hanno la competenza per agire. Perché si tratta di alleviare, di rendere più leggera la presenza dell’immigrato nella mia città. In pratica, alla domanda “cosa posso fare io?”, possiamo rispondere cominciando ad agire secondo ciò che è alla mia portata; quindi, mettendoci insieme a chi condivide questo desiderio, cominciamo da piccoli gesti, possiamo intrecciare i nodi di una rete, lì dove siamo; gesti semplici che generano un’umanità rinnovata intorno a noi».

Fonte: focolare.org


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