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“La comunicazione è relazione” – Intervista al giornalista e scrittore Michele Zanzucchi

 
15 Agosto 2025   |   Italia, Comunicazione,
 
Michele Zanzucchi
Michele Zanzucchi

Intervista sulla comunicazione a Michele Zanzucchi, giornalista e scrittore, già direttore di Città Nuova, docente di comunicazione all’Istituto Universitario Sophia e alla Gregoriana, autore di più di settanta volumi.

Per continuare il nostro viaggio nel tema dei media e della comunicazione, abbiamo incontrato il giornalista, scrittore di più di 70 libri e docente di scienze della comunicazione Michele Zanzucchi, per anni direttore di Città Nuova. Siamo partiti da una riflessione sul nostro tempo delicato, con una situazione geopolitica molto tesa, una società molto mediatizzata e una tecnologia molto sofisticata. Dunque, la prima domanda è stata questa:

Che ruolo ha, in questo complesso contesto, la comunicazione? E che funzione può svolgere per la costruzione del bene pubblico?

Credo che la comunicazione –nelle sue due accezioni: comunicazione e informazione– abbia un ruolo di crescente importanza, talvolta di decisiva presenza. Un aggettivo sussurrato sui social o su un magazine web può fare il giro del mondo in un battibaleno, scatenare improvvisi mal di pancia nei politici di turno, aprire voragini polarizzate, per cui il mondo si divide in buoni e cattivi. Ma può anche ricucire ferite inveterate, dare un senso alle cose, aprire soluzioni inattese a problemi complessi. La comunicazione interpersonale, esaltata dai social, e l’informazione mediatica possono essere fattori di costruzione del bene comune o al contrario fattori di distruzione del vivere in società. Dipende da tanti elementi, perché viviamo in una società complessa che richiede risposte complesse. Ma sottolineerei il ruolo dell’informatore, che sia professionista o “smanettatore” sui social: la persona che comunica e che informa può determinare quanto la news può portare al bene o al male. La responsabilità è, almeno in parte, sua.

A proposito di tecnologia, viviamo una situazione ormai contraddittoria: da una parte abbiamo telecamere e microfoni ovunque, per cui, rispetto al passato, abbiamo una capacità decisamente superiore di raccogliere documenti in ogni angolo del mondo. Dall’altra parte, però, questa sorta di democrazia della comunicazione, porta a una capacità di manipolazione pericolosa delle informazioni, anche attraverso quella che potremmo definire democrazia della tecnologia. Quanto è difficile orientarsi in questo terreno insidioso?

Non è facile, e il singolo giornalista, il singolo informatore da solo può poco per contrastare i condizionamenti pesanti di cui è oggetto. L’eccesso di documentazione, il data flood, l’inondazione di dati, deve essere gestito con attenzione: non per niente aumentano i professionisti della gestione dei dati. In epoca di intelligenza artificiale, di stratosferiche potenze di calcolo dei computer, di un’informazione che sembra sfuggire di mano agli stessi professionisti, la soluzione è sempre e solo una: lavorare in gruppo, federando le competenze, usando la propria capacità unica e irripetibile di informare mettendosi a disposizione della comunità che informa. Da parte degli utenti credo sia fondamentale avere fiducia in qualche giornalista, in qualche media particolare, perché da soli è difficile orientarsi. Ma bisogna anche stare attenti e diversificare le proprie fonti di informazione, per non cadere vittima dell’inganno dell’informatore unico.

Michele Zanzucchi _ Intevista
Michele Zanzucchi _ Intevista

Oggi che l’intera comunicazione sta cambiando, di cosa è garante il giornalista? In cosa si differenzia da altri comunicatori?

Il giornalista è colui che trasforma un fatto in una notizia. Il suo potere sta nel dare notiziabilità a quel che accade. Nel far questo sceglie quello che deve essere notorio e quello che invece rimarrà nel dimenticatoio. In questo discernimento di vitale importanza per l’informazione, il giornalista deve mettere in atto tutte quelle verifiche delle fonti che possano dare equilibrio e veridicità alla propria notizia; ma non basta, deve trovare conferme anche nel corpo redazionale con il quale interagisce. Il giornalista vero ha imparato gli strumenti della verifica, della redazione e della diffusione della notizia, cosa che un cittadino qualunque non può avere. Il citizen journalism, che ha una sua importanza, e che sta sfidando i giornalisti veri, non potrà mai sostituire pienamente il giornalista, soprattutto nelle tre funzioni che dicevo: verifica, redazione e diffusione. I citizen journalist sono piuttosto delle fonti, da verificare, piuttosto che dei giornalisti veri.

Per il giornalista, i punti di partenza sono sempre la realtà e la ricerca della verità. Ma in che misura, egli ha anche il compito, partendo da questi due principi, di lavorare per un mondo migliore? Per costruire valori come la pace e la fratellanza tra i popoli?

Il giornalista, che lo voglia o no, che lo faccia intenzionalmente o meno, è comunque un opinion maker, un creatore di opinione pubblica. È vero, si insegnava nella scuola anglosassone di giornalismo, che la persona del giornalista deve sempre scomparire nella notizia. Per lungo tempo, numerosi organi di stampa anglosassoni – The Economist lo fa ancora, almeno parzialmente – hanno omesso il nome stesso del giornalista che ha redatto la notizia o l’articolo, per garantirne l’obiettività. Ormai, si è convinti invece che il giornalista giochi un ruolo nella notizia, se non altro per la scelta del linguaggio, o per l’omissione di questa o quella fonte. Credo che il patrimonio umano detenuto da un giornalista debba entrare nella sua scrittura, ma senza nasconderlo. Se un giornalista è cristiano, deve dirlo, la sua “intenzione”, come diceva Kapuściński, emergerà comunque e sarà obiettiva. Di tutto questo scrivo a lungo in un libro appena uscito, Manuale di giornalismo dialogico (Città Nuova, Roma, 2025).

La nostra è anche la società delle immagini. Questo strumento della comunicazione sembra aver superato quello della parola. Che originalità mantiene la parola scritta? Quale potere continua ad avere rispetto all’immagine? Quale unicità, la seconda, non potrà mai toglierle?

L’immagine è essa stessa parola. Cioè, esprime qualcosa. Mai dimenticarlo. Ma molto spesso l’immagine può imbrogliare, e può farlo più della parola scritta, perché agisce sul nostro cervello, non solo sulla parte razionale ma anche su quella emotiva. Spesso guardiamo due minuti alla tivù un servizio qualsiasi e pensiamo di sapere tutto, perché l’immagine è evidente molto più della parola, perché usi facoltà umane che la lettura non mette in moto. Ma l’inganno è dietro l’angolo, e il deep fake di questi tempi, le immagini create dall’IA rischiano di portarci in un mondo in cui il falso è norma. La scrittura può dare una visione molto più ampia delle immagini su un evento. La parola ha il pregio di portarti a entrare a fondo in una notizia, a sviscerarne i significati, molto più dell’immagine.

Nel tuo lavoro sei stato inviato in Kurdistan, hai vissuto a lungo in Libano, hai viaggiato in diversi paesi dell’Asia centrale. Quanto è importante per il giornalista e più in generale per il comunicatore, andare sul posto, diventare egli stesso strumento fisico della comunicazione, in un tempo dove, appunto, la tecnologia ci consente di “viaggiare” rimanendo fermi a casa nostra?

Sono un reporter vecchio stampo, ho visitato tre quarti degli Stati oggi riconosciuti dall’Onu, ho scritto decine di libri di reportage. Il giornalista, secondo me, se ne ha la possibilità – perché nel sistema giornalistico sempre più gente rimane davanti a un computer a lavorare, come si dice, al desk –, deve vedere, deve andare sul posto di un evento, perché i cinque sensi messi in moto -guidati dall’intelligenza- permettono di capire meglio, di cogliere dettagli che spiegano il tutto, di “sentire” i testimoni, di cogliere sempre nuovi elementi di comprensione. Viaggiare, vedere, costatare, verificare, capire. Il giornalismo che resta davanti a un computer non è mai pienamente giornalismo.

Michele Zanzucchi
Michele Zanzucchi

Il tuo lavoro non è solo quello del giornalista ma anche dello scrittore. Come sta il libro, che funzione ha in un tempo dove internet ci obbliga a consumare velocemente le informazioni? Che forza mantiene il “tempo lungo” del libro?”

Il passaggio dal giornalismo alla scrittura di libri è naturale se uno vuole capire le cose. Richiede tempo, e quindi non tutti possono permetterselo. Ma è un’esperienza che per il giornalista è come una realizzazione delle sue aspirazioni, se non altro perché ha più spazio per spiegarsi. Il libro apparentemente è in crisi, soprattutto nella sua forma cartacea, ma resterà un faro per il giornalismo. E chi vuole capire veramente le cose, dovrebbe mettersi a leggere. Il libro permette di immedesimarsi, più degli articoli, in chi scrive, usare i suoi occhi, il suo tatto, i suoi sensi e la sua intelligenza -dello scrittore- per comprendere un brandello di realtà. Certo, il giornalista che scrive un libro si ritrova a veder moltiplicata anche la sua responsabilità etica.

In che misura la comunicazione è parte dello scambio, dell’incontro con l’altro? Quanto è grande, invece, il pericolo che diventi serva del contrario? Della chiusura, della divisione?

La comunicazione è la relazione. Persino Dio è Dio perché si comunica, dona sé stesso a ognuno di noi. Certo, la comunicazione può essere buona o cattiva, costruttiva o distruttiva. Noi umani siamo tali perché comunichiamo. Lo diceva anche Chiara Lubich in uno dei suoi quattro fondamenti della comunicazione. Gli altri tre, e con questo concludo, erano corollari di questa intuizione fondamentale: il comunicatore ha da “farsi uno” col lettore, con l’interlocutore, con la stessa scrittura e le stesse fonti; e poi non deve mai scendere al compromesso di considerare il medium più importante della persona; infine, quarto elemento di una comunicazione per l’unità, la comunicazione ha da essere positiva, costruttiva.


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