Giornalismo di Pace: cos’è, perché è cruciale in guerra e come ferma l’odio informativo
In un contesto dove i media possono trasformarsi in armi, il giornalismo di pace, basato sulle idee di Johan Galtung, è una pratica necessaria. Non ignora il conflitto, ma ne analizza le cause profonde, valorizzando le risposte non violente per costruire una duratura “pace positiva”.
Abbiamo sentito dire spesso che «in guerra, la verità è la prima vittima» e sappiamo bene quanto i media giochino un ruolo non trascurabile nei conflitti, fino a divenire armi, o munizioni, essi stessi. Esiste, però, anche un’idea dei media funzionale alla pace, una visione consapevole dell’informazione come strumento del dialogo, dell’armonia tra popoli e nazioni.
Esiste, per esempio, il giornalismo di pace; ma cos’è e perché è così importante? A definirlo, è stato il norvegese Johan Galtung, nel 1960, spiegando che non passa per la semplificazione, ma per la ricerca di profondità. Non prescinde dal racconto della guerra, ma la mette a fuoco con dovizia di particolari. L’analizza con meticolosità, si immerge nelle pieghe delle sue cause, ne restituisce il quadro con verticalità e completezza, con lo scopo di indagarne le possibili soluzioni.
Johan Galtung ne parla anche in un’intervista rilasciata nel 2018 al sito Vatican News.
Cosa sono il trascendimento e la pace positiva?
Del resto, la pace è stata sempre al centro del lavoro di Johan Galtung: nel 1959, fondò l’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Oslo; cinque anni dopo il Journal of Peace Research e alla vigilia del nuovo millennio, nel 1998, il Transcend: una rete mondiale per la pace, lo sviluppo e la formazione sul “trascendimento” in relazione alla soluzione dei conflitti.
Cos’è il trascendimento? Un percorso di cambiamento, di evoluzione, che procede per gradi e oltrepassa la mera risoluzione di un conflitto, per la ricerca di soluzioni più ampie, profonde, sociali e umane, accolte favorevolmente da entrambe le parti perché a loro davvero funzionali. Anche se diverse dalle precedenti posizioni delle stesse parti.

È questa la “pace positiva” di cui parla Galtung, ovvero quella che, proprio attraverso il trascendimento, sviluppa una relazione autentica tra fronti avversi, la comprensione reciproca, l’empatia, la conoscenza, il rispetto. E qui gioca un ruolo fondamentale un giornalismo edificante, costruttivo che addirittura possa adoperare le tensioni come risorsa, plasmandole in sorgenti di sviluppo bilaterale, in sinergia reciproca, per rapporti più saldi e capaci di respingere eventuali, nuove, tensioni.
La semplificazione, dunque, non aiuta, non giova al giornalismo di pace e alla pace stessa. La sintesi superficiale nemmeno. Figuriamoci la propaganda o l’asservimento del potere da parte dei comunicatori. Servono un’informazione stratificata, dettagliata, coraggiosa, dispendiosa, ostinata, per condurre un conflitto da violento, armato e sanguinoso, a politico, diplomatico, gestito con il dialogo: strumento della pace.
Il giornalismo di pace oggi
Oggi il giornalismo di pace è uno strumento di speranza, una direzione e una pratica possibile, doverosa. Il 6 novembre scorso, è stato organizzato, a Roma, un convegno dal titolo “Giornalismo di pace, raccontare la guerra, non alimentarla”. Tante le riflessioni interessanti a partire da quella di il giornalista del quotidiano la Repubblica, Giampaolo Cadalanu.
Ne estraiamo qui alcuni passaggi: «In contesti di tensione, i mezzi di comunicazione – giornali, tv, radio, siti web, social network e tutto quello che la tecnologia digitale ci riserva – sono sicuramente in grado di fare del male. Possono aizzare l’odio, favorire la disumanizzazione, persino diventare strumenti di genocidio. L’esempio più facile è Radio Milles Collines, l’emittente del Ruanda che si guadagnò il soprannome di Radio Odio quando nel 1994 prese un ruolo attivo nel genocidio dei tutsi, con incitamenti al massacro di ferocia illimitata. Ma basta guardare alla storia, per capire: sui media il meccanismo che nutre il rancore e l’avversione, approfondendo la lontananza fra gruppi di esseri umani, trova applicazione continua, spesso senza reale consapevolezza dei giornalisti».
«L’informazione però – prosegue Cadalanu – può aiutare anche ad andare verso la pace: il “buon giornalismo” è già da solo uno strumento di pacificazione. Fare informazione corretta, imparziale quanto ogni giornalista può essere, ma allo stesso tempo trasparente, senza toni eccessivi o esasperati, permette di sfuggire ai meccanismi di paura, odio e demonizzazione su cui si basa chi vuole il conflitto».

Riflessione sulla pace
Più avanti, Giampaolo Cadalanu entra nel concetto di pace: «Partiamo dalla coscienza che la pace non è un fenomeno statico, cioè una meta che rimane una volta raggiunta, ma è invece un processo in continuo sviluppo, e quindi deve essere seguito e se possibile coltivato. Come primo possibile modello di lettura proviamo ad adottare una visione binaria: giornalismo di guerra/giornalismo di pace».
«Il primo parte da una visione del conflitto come un gioco a somma zero, dove si vince o si perde, e il giornalismo serve solo a raccontare gli esiti della violenza. Il secondo ne favorisce l’analisi, ne esamina le cause, presenta le possibili soluzioni non violente anche a costo di scostarsi dall’idea tradizionale di giornalismo come testimonianza distaccata e obiettiva».
«Il giornalismo di guerra spesso fa una scelta di campo, e rischia di vedere “gli altri” solo come un problema, finendo per accettarne la disumanizzazione e contribuendo a costruire l’antagonismo, magari esaminando solo i peccati della parte avversa. Cerca soluzioni solo sul campo di battaglia, andando a cercare il gesto iniziale dello scontro e non le sue radici storiche, e riferisce solo la visione delle élite».
Per il “giornalismo di pace”, invece, il problema è nella guerra, non negli “altri”. E dunque il resoconto della guerra non basta, perché il conflitto non è necessariamente sinonimo di scontro violento, ma può essere definito in senso ampio come “una relazione tra due o più partiti che hanno – o pensano di avere – obiettivi incompatibili”. Per questo devono essere considerate e valorizzate le possibili risposte nonviolente al conflitto, anche se questo comporta un supplemento di impegno e l’abbandono di un approccio fintamente “freddo” ed equidistante alle ragioni dei contendenti.

L’importanza di un giornalismo di pace
L’intervento di Giampaolo Cadalanu offre altri spunti interessanti, ma già da questi passaggi viene evidenziata la possibilità di un giornalismo di pace e la sua utilità per una pace profonda, autentica, duratura. Quella pace di cui parla Papa Francesco, quando dice: «La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con sé stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri».
Anche scrivere, dunque, costruire un racconto per immagini, incontrare qualcuno per un’intervista, insomma, ogni atto della comunicazione, deve tenere conto del bene comune, del bene di ogni essere umano, che coincide sempre con la pace. Condizione necessaria per ogni forma di sviluppo: umano e non solo.
