“Il cinema smonta pregiudizi”: MedFilm Festival come strumento di trasformazione
“Come si può non temere qualcuno? Solo conoscendolo”. La fondatrice del MedFilm Festival, Ginella Vocca, spiega come il cinema di qualità sia uno strumento disarmante per il dialogo, l’intercultura e la trasformazione sociale, costruendo l’unità nel Mediterraneo.
C’è un Festival di cinema dedicato al Mediterraneo, un festival sul dialogo, sulla relazione tra le preziose diversità di questo antico mare ricco di storie e culture. Si chiama MedFilm Festival, si svolge a Roma ed esiste, con successo, da 31 anni. Per questo, parlandone con Ginella Vocca – sua ideatrice, fondatrice e direttrice – siamo partiti dall’inizio.

Come nacque l’idea di un Festival che abbracciasse l’intero Mediterraneo?
Da un sentimento di attenzione e riconoscenza verso le culture dell’Africa che ho scoperto, da bambina, grazie al lavoro di mio padre. In paesi come la Libia e la Nigeria. Andandolo a trovare, finita la scuola, ho iniziato ad amare una musica, un audiovisivo e un’arte che, tornata in Italia, non ritrovavo. Ho iniziato a domandarmi, col tempo, perché l’Africa, in particolare il nord del continente, non fosse rappresentato nei circuiti ufficiali. Da qui la genesi di un Festival che colmasse un vuoto, una mancanza.
Quanto è importante, oggi, l’esistenza di un festival come il Med, con la sua capacità di contribuire alla costruzione di una sorta di coscienza unitaria di questo straordinario mare? Pur nel rispetto e nella valorizzazione delle varie culture?
Per noi è indispensabile, perché è necessario avere testimonianze dirette dai talenti dei paesi dell’area. Purtroppo, del Mediterraneo si parla spesso come di un unico indistinto, quando invece è uno spazio straordinariamente sfaccettato, con temi comuni sui quali è fondamentale costruire un’identità condivisa e nuove prospettive di pace e prosperità.
Per quel Mediterraneo abbondante di ricchezze…
Il Mediterraneo è un mondo straordinariamente ricco, sia di materie prime che di cultura. Forse per questo è così conteso e drammaticamente attraversato da eventi terribili. La cultura è una porta che rimane sempre aperta, anche dove quelle della diplomazia e della politica si chiudono in malo modo. La cultura travalica i confini ed è di difficile contenimento. Ecco perché è importantissimo dare voce, spazio e visibilità ai talenti dell’area del Mediterraneo, che sono tantissimi, sia nel rispetto della tradizione che nelle innovazioni. Compresi i giovani autori e persino gli studenti dell’audiovisivo, che il Med monitora attraverso il progetto Metexis.

Quanto si presta, Il Med ad essere strumento per il dialogo e l’intercultura?
il MedFilm Festival non si presta, ma vuole essere strumento per il dialogo e la conoscenza delle culture, per l’intercultura, per la sopravvivenza delle diversità culturali che, come quelle biologiche sono indispensabili per la sopravvivenza della specie. Dunque, è fondamentale conoscere, osservare, ascoltare in modo diretto le culture dei popoli che rendono ricca e unica l’area del Mediterraneo.
Se diciamo che il Med è uno strumento per la pace, lei come commenta?
Il primo passo verso l’apertura all’altro è non temerlo. Come si può non temere qualcuno? Solo conoscendolo. Quindi, il cinema e la cultura, in generale, sono il modo più bello, più libero e sincero di conoscere un popolo. Quindi si, Il Med è un veicolo di pace da sempre, anche nella sua dimensione strutturale: al suo interno convivono realtà istituzionali e diplomatiche spesso di difficile conciliazione, così come gli artisti, nonostante la presenza di istituzioni forti e di rappresentanti diplomatici dei loro paesi, si sentono totalmente liberi di esprimersi. Tutto questo non è facile da gestire, ma sono 31 anni che riusciamo a farlo con un certo successo, perché animati dall’obiettivo di ascoltare, conoscere, dialogare.
Il Med sa entrare nelle pieghe della complessità, anche drammatica, del Mediterraneo. Non fa di questo mare una Cartolina
No, non fa di questo mare una cartolina, anche se comunque è irresistibilmente bello, anche nelle sue rappresentazioni più drammatiche, per la sua luce e i suoi colori: dall’azzurro del mare al rosso della terra. Fino alle sue architetture: cito Gaza, una delle città e dei porti più antichi del Mediterraneo, le cui architetture, purtroppo, non esistono più perché distrutte. Ci sono anche luoghi della Libia completamente rasi al suolo, le grandi statue dei Buddha. Luoghi dell’Iran, dell’Iraq. Negli ultimi trent’anni sono avvenute cose terribile che tendono alla cancellazione della memoria. Il cinema ci aiuta anche con la sua capacità di testimoniare la bellezza dei luoghi.

Si vede, per esempio, la distruzione nel film Nezouh, Il buco nel cielo, un’opera siriana di qualche anno fa passata per il Med. Quanto è importante restituire questa drammaticità complessa, da un punto di vista storico, per rendere efficace il dialogo sul Mediterraneo?
Nezouh, il buco nel cielo (puoi vedere la nostra recensione qui), lo abbiamo portato in anteprima in Italia, e abbiamo un rapporto meraviglioso con la sua regista: Soudade Kaadan. Un’amica del Med, un’artista straordinaria e visionaria. Il suo film è speciale perché racconta una storia assurda – per persone che vivono nella pace come noi – quella di una casa a cui via via vengono distrutte le finestre e le mura, fino a creare un buco che mostra il cielo. Attraverso questo foro, la protagonista passerà per iniziare una nuova esistenza, di cui il film non ci dice l’esito. La regista è riuscita a rendere una situazione così tremendamente drammatica in forma di commedia umana, perché così è l’essere umano: capace di attraversare l’abisso e uscirne con ancora dentro la voglia di vivere e costruire.
Il cinema è un linguaggio universale capace di attraversare confini. Quanto lo avete riscontrato, in questa lunga esperienza? Quanto siete ancora più consapevoli, ora, che il cinema sia uno strumento disarmante?
Il cinema è uno strumento disarmante, almeno quello di qualità, capace di affronta temi universali, importanti per ogni essere umano, perché smonta pregiudizi. È disarmante, però, nel momento in cui trova visibilità presso il pubblico. Quello che possiamo dire – e la cosa ci lusinga molto – è che gli spettatori dopo aver frequentato il Med, raccontano di aver sentito un sapore talmente forte, che quando tornano in sala per altre proposte, le trovano insipide, banali.
Cosa vi dicono queste loro sensazioni?
Che spesso le distribuzioni ufficiali non aiutano quel tipo di cinema – tra l’altro molto valido dal punto di vista tecnico – che non ti lascia indifferente, ma dona qualcosa che germoglia dentro fino a maturare in nuova consapevolezza. In Italia, manca un po’ l’attenzione per quel cinema che sappia uscire dalle regole commerciali. Noi andiamo avanti nella nostra direzione e lavoriamo anche per questo.

All’interno del Med è presente il progetto Costruttori di dialogo. Di cosa si tratta in particolare? Come si integra alla struttura, alla mentalità, del festival?
Tutto avviene nella struttura stessa del Festival, che mette in dialogo istituzioni nazionali e internazionali, sedi diplomatiche in Italia e all’estero, artisti tra loro e con le istituzioni. L’alto e il basso, il Sud, l’Est, il Nord e l’Ovest. Tutto dialoga nel festival, perché tutto è contenuto in un disegno armonico al suo interno. Compresi i detenuti del carcere di Rebibbia che partecipano come giurati al progetto Metexis. Così come i vari reparti industriali dell’area del Mediterraneo che vengono ospitati a Roma durante il Festival, e gli addetti ai lavori (tra cui registi e produttori) dei quattro angoli del Mediterraneo, che durante il Med meeting si incontrano per sviluppare sinergie e collaborazioni: per provare a creare nuove opere in collaborazione tra di loro. Tutto dialoga nel Med.
Come scegliete i film?
Il Med è una macchina complessa, che gode di pochi finanziamenti. Chi ci lavora lo fa con grandi motivazioni. Il comitato di selezione è composto da sei persone tutte espertissime nel cinema del Mediterraneo, ognuno con le sue specificità: chi sul cinema iraniano, chi egiziano, chi libanese. Ognuno fa delle proposte, ma apriamo anche un bando sulla piattaforma freeway attraverso il quale possono iscriversi i film nelle varie edizioni del Med. Dai circa 7/800 che si iscrivono, viene selezionato il meglio per ogni edizione. Circa il 10%.
Papa Leone XIV ha da poco definito i cineasti «pellegrini dell’immaginazione, narratori di speranza, messaggeri di umanità». E ha citato il messaggio agli artisti di Paolo VI: «Questo mondo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione». Da qui l’invito a «fare del cinema un’arte dello Spirito», capace di «educare lo sguardo» e di «non fuggire il mistero della fragilità». «Il grande cinema – ha spiegato – non sfrutta il dolore, lo accompagna, lo indaga. Dare voce ai sentimenti complessi è un atto d’amore». Quanto si trova d’accordo con queste parole?
Ogni parte del discorso di Papa Leone XIV è assolutamente condivisibile, soprattutto da chi fa questo lavoro di ricerca e diffusione culturale (è la missione del Festival). È vero che questo mondo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione, e sicuramente il cinema è arte dello spirito come tutte le arti. Per di più il cinema è un’arte popolare che raggiunge milioni di persone, per cui ha una potenza enorme di educazione allo sguardo e ci aiuta a non fuggire dal mistero della fragilità umana. Bellissimo anche il tema di non sfruttare il dolore, ma accompagnarlo, indagarlo, dando voce ai protagonisti. Mi è capitato in più occasioni, anche quest’anno, con il regista palestinese Kamal Aljafari, di riconoscere nella sua energia una speranza per me. Quando l’arte è sincera e pura, può raccontare i drammi più terribili ma lo fa sempre, come dicevamo, con un segno di speranza.