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La Giustizia e i diritti umani

Di Antonio Amato

Abbiamo ricevuto una lettera da Antonio Amato, funzionario del Servizio Sociale presso l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Bologna. Negli ultimi vent’anni, in particolare, il dott. Amato si è occupato di misure e sanzioni di comunità, alternative alla pena carceraria; da poche settimane è in pensione. La sua lettera può sembrare inizialmente di denuncia sulla situazione delle carceri italiane. In realtà non è così, c’è questo ma anche molto di più: c’è la presa di coscienza di una ferita aperta nella società, e una richiesta, rivolta ai giovani, ma idealmente anche a tutti, di affinare una sensibilità che permetta di prendersi carico insieme di un dramma che coinvolge tante persone, in tutto il mondo. #Intimeforpeace.. è anche questo.

Mi chiamo Antonio Amato (…) e vorrei provare a dirvi qualcosa sul tema della giustizia e dei diritti umani, ricavandola soprattutto dalla mia esperienza professionale maturata in 40 anni di servizio.

Una premessa

 “Cosa ben più preziosa dell’oro ma anche l’ideale più inafferrabile di tutti, diceva Socrate riguardo alla giustizia, mentre Gustavo Zagrebelski[1] la ricorda come “parola oscura”. Ma del resto, continua, tutte le grandi questioni della vita si esprimono con parole tutt’altro che univoche. (…)

Per questo non potremmo che limitarci a brevi considerazioni, piccoli pensieri…

L’esecuzione della pena in Italia

Per parlare di esecuzione della pena e del carcere, bisogna far riferimento all’art. 27 della Costituzione italiana, che ricorda che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”. La finalità rieducativa della pena deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione. Ma quanti sono e chi sono le persone detenute nelle 189 carceri italiane e quanto l’attuale sistema penitenziario italiano, già condannato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante (vedi sovraffollamento degli istituti di pena), è distante dalle connotazioni e dal compito che alla pena assegna la Costituzione? Quanto è in grado di assicurare effettività dei diritti relativi al mantenimento dei rapporti con il mondo esterno, il diritto al lavoro, al bene salute, all’istruzione, alla sfera religiosa, ai diritti politici?

Le persone in carcere

Le persone condannate in Italia, come in altri Paesi e in particolare negli Stati Uniti, appartengono per la maggior parte, alla c.d. utenza debole: tossicodipendenti, malati psichici, immigrati, persone con modeste risorse economiche, sociali, culturali, con difficoltà di inserimento lavorativo, privazioni affettive e relazionali. Solo una piccolissima percentuale di loro ha compiuto una scelta di vita delinquenziale e di rifiuto, fanno parte cioè della cosiddetta “criminalità organizzata”.

Quando arrivano nei nostri uffici, per fine pena o per concessione di una misura alternativa alla detenzione, queste persone presentano difficoltà di autonomia, autodeterminazione, comunicazione e relazione, a diversi livelli, con un livello di tolleranza alle frustrazioni molto basso che li porta a vivere con grande difficoltà anche delle normali attività, come quelle lavorative, relazionali, come un semplice colloquio.

Ma cosa è il carcere? Molti osservatori lo definiscono come un grande contenitore di povertà, come una discarica sociale. Il carcere, infatti, getta ombre su come la società affronta i suoi problemi sociali: basta incarcerare i colpevoli e non pensarci più. Ma fino a quando? E con quali costi di personale e di strutture?

La Costituzione italiana, l’abbiamo letto, ci dice che la pena deve tendere al reinserimento sociale delle persone, ma per la metà dei detenuti il reinserimento sociale non è previsto. Non è previsto perché sono persone senza codice fiscale, senza residenza, senza lavoro e dunque non possono accedere a misure alternative alla detenzione, né possono essere reinseriti socialmente al momento della scarcerazione. È un modello che genera frustrazione in chi lo vive e anche in chi lo applica.

Un dirigente dell’amministrazione penitenziaria, infatti, sostiene che il carcere si trovi ad affrontare una questione drammatica della nostra società: il crescere delle disuguaglianze: il sovraffollamento delle carceri il segno che la società sta scegliendo la prigione come risposta ai problemi di diseguaglianza sociale, che invece dovrebbe affrontare con la redistribuzione delle risorse e l’equità sociale. Invece di gestire un problema lo si accantona utilizzando il sistema penale, e infatti,dove c’è una riduzione della spesa sociale, c’è sempre anche un aumento della spesa medica e carceraria; i problemi, quindi, vengono medicalizzati o carcerizzati.

Conclusioni

Viviamo tempi disordinati, pesanti, in cui regna l’estremismo delle emozioni e se vogliamo trovare dei punti di raccordo non dobbiamo mirare alle utopie, alla giustizia assoluta ma accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. E sarebbe già un grande risultato.

La commissione di un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di pagare il suo debito con la società. Penso che il carcere non sia il modo più efficace per saldare questo debito: il 70% dei dimessi dal carcere per fine pena commette nuovi reati e i costi giornalieri della detenzione sono alti, dai 130 ai 140 euro al giorno per ogni detenuto; avevano ragione gli economisti liberali: “Troppa reclusione uccide la reclusione”.

Il carcere non è quindi un semplice scudo contro la delinquenza ma un’arma a doppio taglio.

Sono convinto che parlare, soprattutto con voi giovani, di questi temi, condividere il fatto che la realtà è complessa e non permette di dividere il bene dal male in modo semplice e netto, che c’è un confine sottile tra legalità ed illegalità, contribuisca a rinforzare la vostra sensibilità, arricchire i vostri sentimenti, la vostra esperienza che torneranno utili per vivere meglio anche con gli altri e per  affrontare la vita quando questa si presenterà nel suo punto più oscuro e buio.

Al male ci si può avvicinare per capire e imparare, mantenendo la giusta distanza nel giudizio, che significa appunto saper accettare che ci siano persone e storie pesanti che possono comunque insegnarci qualcosa.

Vorrei terminare questa breve riflessione con le parole del poeta Aimé Cesarie : “E soprattutto, mio corpo, e anche tu anima mia, state attenti a non incrociare le braccia nell’atteggiamento sterile dello spettatore, perché la vita non è uno spettacolo, perché un oceano di dolore non è un proscenio, perché un uomo che grida e urla non è un orso che balla”.                            

Bologna, 26 Aprile 2020
Antonio Amato

[1] Gustavo Zagrebelsky (San Germano Ghisone, Torino,1943) è un giurista e accademico, ex-presidente della Corte Costituzionale italiana.


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