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La via della vita e la cultura della fraternità

 
1 Maggio 2020   |   Mondo, Diritti Umani, Comunione e Diritto
 

Adriana Cosseddu, docente di Diritto penale all’Università di Sassari e responsabile di “Comunione e Diritto”, rete internazionale di giuristi, con il testo che segue, ci aiuta ad addentrarci nelle tematiche della Settimana Mondo Unito 2020 (giustizia, legalità, diritti umani, pace) e ad approfondirle, per avere piena consapevolezza del nostro agire per un mondo unito in questa società che affronta la pandemia da Covid-19.

La mappa geografica del mondo, giorno dopo giorno, si tinge di rosso a indicare un pericolo che avanza, una minaccia che accende la paura al diffondersi del “virus” (COVID-19), invisibile e poco conosciuto, che ci contagia e ci sgomenta.

È uno scenario nel quale la globalizzazione, generata con la sua logica dei profitti dalle leggi del mercato e della finanza, sembra restare sullo sfondo, mentre l’umanità, dal Nord al Sud del mondo, assume in questo tempo il suo valore più autentico: non un soggetto, indeterminato, scritto sulle Carte o nei Trattati, ma volti di persone, contorni di storie personali e familiari. Racconta una sofferenza che tutti ci riguarda e ci accomuna, nella quale ci sono beni che non si vendono né si comprano: non il tempo, non la gratuità di chi si spende per gli altri. Vulnerabilità e fragilità ci riconsegnano alla nostra umanità, al di là dell’età, giovani e anziani, della condizione sociale, umili e potenti, cittadini e governanti.

Eppure, non può essere questa una specie di eguaglianza fra tutti; piuttosto è la conferma della pari dignità, propria dell’umanità di ciascuno, senza attributi o preferenze, senza scarti ed esclusioni. Nella pandemia, che tutti ci coinvolge, l’umanità ci rimette davanti al tema della vita, primo fra i diritti umani inviolabili e fonte degli stessi, quel diritto nel quale il dramma della sofferenza mette a nudo anche le innumerevoli ingiustizie.

Giustizia

Osserviamo la realtà, come a noi si offre in questo tempo. L’intervento di assistenza e cura della salute è riservato a tanti; gli ospedali si fanno luoghi di accoglienza e testimoniano impegno e dedizione, ma non così per tutti. Fra questi, “ultimi”, ecco quelli rimasti “senza tetto”, di cui i telegiornali mostrano in una grande città come Las Vegas il luogo loro riservato: ognuno in un posto auto, tracciato sull’asfalto, a cielo aperto, così da rispettare la distanza prevista ad evitare il contagio. Una sicurezza che la “regola” impone, e nessuno certo intende cancellare la doverosità della norma. Ma occorre adottare una prospettiva anche ‘oltre’ la regola, per fare del diritto il luogo della giustizia. È l’anelito sempre presente nella storia dell’umanità: si fa attesa nel grido dei poveri, domanda in chi ha subito un’offesa, esigenza nella qualità delle norme giuridiche che regolano la convivenza, ricerca nelle pratiche di risoluzione dei conflitti e tutela dei diritti. Dalla definizione di giustizia dipendono valori, principi e regole, dalla pratica della giustizia dipendono comportamenti e pace sociale.

Ma vi è un’altra narrazione, che accompagna in parallelo la storia dell’umanità: è quella del racconto biblico dell’alleanza di Dio con l’uomo, del noto richiamo a Caino, dopo l’uccisione di Abele, “dov’è tuo fratello?”. E alla risposta di Caino, “sono forse io custode di mio fratello?”, sembra far eco nel nostro tempo quanto Jürgen Habermas afferma della giustizia: «intesa in senso universalistico pretende che ciascuno sia responsabile per l’altro»[1]. Il fondamento va dunque ricercato sempre nella persona, nella dignità costitutiva dell’identità di ciascuno.

Legalità

Ed è questo lo sfondo capace di arricchire la stessa legalità nel suo significato più autentico, perché le leggi siano applicate senza parzialità, senza dimenticanze né favori, nel riconoscimento della uguale dignità. Così, nella lettura del giurista Piero Calamandrei, la legalità arriva ad essere spiegata con il comando: «non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi stessi», fino a «sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte»[2].

Oggi, là dove la globalizzazione, creando nuove disuguaglianze, non ha saputo unire, ma generare con le innumerevoli ingiustizie una diffusa indifferenza, è proprio la sofferenza inattesa a farci ritrovare l’altro, il suo volto, il suo bisogno di aiuto, la necessità di un gesto, pur piccolo, ma che dica un amore capace di riempire un vuoto altrimenti incolmabile. Lo raccontano le tante vite che si spengono senza un familiare accanto, ma con la presenza magari di un’infermiera che con il cellulare permette a una nonna di salutare i propri cari, per dare un’ultima consolazione e riempire una drammatica solitudine. Vite nascoste diventano titoli nelle prime pagine dei giornali.

Così l’umanità ferita ricompone dal basso la sua rete di relazioni, per riallacciare nuovi nodi, intrecciati dal dolore, proprio quello che non vorremmo mai sperimentare nella nostra vita. Ci coglie ora in modo inaspettato, ma fa cadere condizionamenti e pregiudizi, apparenze e stereotipi, per metterci a contatto gli uni con gli altri e riannodare relazioni in qualche modo perdute.

Diritti umani

Allora, la domanda: «può essere mio prossimo, può essere mio fratello anche colui che non scelgo, che non ammetto […]; colui che non abita il mio stesso spazio […], che non ha i miei stessi pensieri»[3]? – quella domanda non ci trova impreparati in una sorta di rassegnazione o di ripiegamento su di sé, perché quasi inconsapevolmente oggi una fraternità nascosta muove il nostro agire. La libertà, che si tende come diritto fondamentale a difendere a tutela della propria individualità, senza debito alcuno verso l’altro, si mostra capace di farsi dono in quella porzione che sono disposto a perdere per assicurare la salute, diritto di tutti. L’eguaglianza, misurata spesso sulle prerogative rivendicate per sé e dimentica dell’altro, trova anch’essa nella fraternità un principio vivente: si fa modalità dell’agire in chi anche per un anziano, solo, si fa compagnia e assistenza, dimentico di sé.

La riscopriamo dunque quale principio che prende vita in un ritrovato tessuto relazionale: nel ‘legame’, da riconoscere o generare in quella situazione di abbandono dove la relazione manca; nel ‘ponte’, simbolico o reale, ma necessario a unire o percorrere la distanza fra soggetti lontani, cittadini e istituzioni; trasforma i ‘contatti’ in “rapporti”.

In un tempo forte per la storia dell’umanità, la solidarietà, oggi riconosciuta nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea quale «valore universale», e la fraternità, richiamata quale “stile dell’agire” nell’art. 1 dell’Universal Declaration of Human Rights (1948), emergono nella quotidianità. Quasi con sorpresa ne intravediamo qualche segno anche nei rapporti di collaborazione fra Stati; diventano elementi di una cultura capace di ricomporre le fratture del condivisibile nella prossimità, vissuta uomo accanto a uomo. Si coglie là, dove il dolore del presente stringe i nodi che ci legano in una fraternità riscoperta nella collettività.

Come rileggerla? Si nasconde in quella restrizione alla libertà personale, che mi impegno a rispettare per generare relazioni di cura verso gli altri, che non conosco, ma che con me sono parte della comunità. Si manifesta nella creatività delle tante forme in cui ci si incoraggia a restare nelle proprie case da protagonisti attivi di un percorso di guarigione. Si racconta nel sorriso donato dietro una mascherina sul volto; si fa dono là dove la nostra responsabilità è capace di creare lo spazio nel quale l’altro possa ritrovarsi oltre l’umanità ferita. Significherà, mutando il linguaggio, farci noi risposta d’amore per l’altro, e tante vicende umane oggi lo testimoniano.

Ma, ne siamo coscienti, la realtà non si esaurisce qui: in tante parti del mondo le violenze si perpetuano, e i dimenticati rimangono ai margini, invisibili ai più, vittime dei diritti negati. All’ONU, nel suo intervento del 28 maggio 1997, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, pronunciava parole che riscopriamo per l’oggi. Dinanzi alle guerre e alle tante giustificazioni che sempre si troveranno per generarle, occorre “un supplemento”, radicato nel «valore dell’amore», giacché «il futuro del mondo, […] la sua capacità di progredire, di trovare delle soluzioni ai suoi conflitti, alle sue crisi, dipende unicamente dalla presa di coscienza degli individui e dall’impegno delle persone»[4].

Del resto, si legge nel Preambolo alla Costituzione dell’UNESCO, entrata in vigore nel 1946: «Poiché le guerre hanno origine nello spirito degli uomini, è nello spirito degli uomini che si debbono innalzare le difese della pace».

Edificare la pace

Tanti rimangono i passi da compiere, e ce lo ricordano anche le parole scritte da Martin Luther King nella sua Lettera dal Carcere di Birmingham (16 aprile 1963), dove si fa portavoce di «una pace sostanziale e positiva, in cui tutti gli uomini rispettino la dignità e il valore della persona umana».

Pensiamo oggi al dramma delle carceri: i detenuti, per l’isolamento dai familiari e la paura del contagio, si ribellano fino a gridare sui tetti la loro condizione. Non manca il rischio per i lavoratori, esposti alla perdita del lavoro o a un lavoro senza garanzie e a “qualunque costo”. La pace non è assenza di guerra o di conflitti, si edifica piuttosto creando le condizioni per dar vita a rapporti giusti, nel rispetto dell’altro che sa farsi anche ascolto, e nel dialogo offre riconoscimento e accoglienza.

La globalizzazione muta il suo scenario: non il dovunque del produrre e dello scambiare, in una logica di profitto e consumo, piuttosto lo spazio nel quale il di più della condivisione e della co-responsabilità domanda di decidere nuovi passi che negli ordinamenti arrivino a cambiare le regole. Comincia in questi giorni ad avanzare il problema di far ripartire lavoro ed economia. Ma quel volto dell’altro – così caro a Emmanuel Lévinas – che in questo tempo abbiamo ritrovato, ci ricorda che gli stessi artt. 23 e 25 dell’UDHR recano l’indicazione dei diritti imprescindibili: diritto al lavoro, a un tenore di vita che assicuri la salute, così come il diritto all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, cure mediche e servizi sociali. Diritti tutti che attendono effettività, ma che mancano oggi di una cornice più ampia, che pure l’art. 29, comma 1° della stessa Dichiarazione Universale contempla nel richiedere a ognuno «i doveri verso la comunità».

Un intreccio dunque che ci riporta a un paradigma mai tramontato: il bene comune, che non si pone quale limite all’esercizio dei diritti, ma come regola nell’esercizio del potere. «Il bene comune – si è scritto – […] non è un dato precostituito contro cui i diritti sono destinati a infrangersi […]; è invece un criterio normativo d’azione e uno sfondo valoriale di cui i diritti umani sono parte integrante. È inoltre, al pari dei diritti, un criterio regolativo rispetto all’uso del potere politico: lo giustifica, ne garantisce l’esercizio in forme legittime e non arbitrarie»[5].

Per una cultura della fraternità

In questo tempo, che ha messo a nudo il nostro essere “semplicemente” persone umane, in qualunque condizione, ci siamo ritrovati capaci per la nostra comune umanità di arrivare a sentire nostra la sofferenza dell’altro. È una lettura quasi necessaria, ma oggi condivisa da tanti, anche persone di diverse convinzioni, perché non risponda a interessi contrapposti, piuttosto alle esigenze proprie di una comunione di vita nella collettività.

Forse, comincia qui il senso di quell’affermazione che oggi spesso ricorre: dopo questo tempo, il mondo non sarà più lo stesso. Non lo sarà, se saremo, insieme, generatori di una nuova cultura che nell’orizzonte della fraternità attende noi per essere realizzata nella reciprocità. A noi rileggerla nella realtà di diritti che non dimenticano i doveri, in nome di quel debito che sempre ci interpella nella nostra umanità e che l’altro con il suo solo esistere ci ricorda.

La sua “grammatica” è inscritta in ogni essere umano per la sua incancellabile dignità, che ne individua essenza e identità, fonte e origine delle molteplici relazioni.

È fondativa dell’umano nella sua dimensione individuale e universale, di singoli e popoli.

È propositiva nel promuovere l’umanità dell’altro.

È una presenza, che nell’altro, specie il più debole e fragile, continuamente ci interroga.

È questa forse la lezione che l’oggi ci consegna.

Ma un’ultima parola può essere quella che papa Francesco ha lanciato in occasione dell’incontro dei Giovani (TED) a Vancouver, 26 aprile 2017, “The future you”:

«Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader, delle grandi aziende. Ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un “tu” e se stessi come parte di un “noi”. […] Basta un solo uomo perché ci sia speranza, e quell’uomo puoi essere tu. Poi c’è un altro “tu” e un altro “tu”, e allora diventiamo “noi”. E quando c’è il “noi”, comincia la speranza? No. Quella è incominciata con il “tu”. Quando c’è il noi, comincia una rivoluzione».

Adriana Cosseddu

 

[1] J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt am Main, 1996, trad. it. L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano, 2008, p. 42 s.
[2] P. Calamandrei, Fede nel diritto, a cura di S. Calamandrei, Roma-Bari, 2008, pp. 85 e 103 ss.
[3] L. Alici, Il terzo escluso, Milano, 2004, p. 138.
[4] Sono, queste ultime, le espressioni rivolte a Chiara Lubich dal Pastore Stroudinsky, durante la Conferenza stampa all’Auditorium Calvin, Ginevra, 25 ottobre, 2002, ACL-DS-2002 1025-TT-A.
[5] Concorre a tale lettura J. M. Finnis, nella sua riconsiderazione del bene comune, Postscript, in Id., Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press, Oxford, 2ᵃ ed., 2011, di recente ripreso da M. Zanichelli, Diritti umani e bene comune, in Bene comune fondamenti e pratiche, a cura di F. Botturi e A. Campodonico, Milano, 2014, p. 147 ss.


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